Da Napoli a Hollywood, dall’Italia alla conquista del mondo. Questa la mirabile parabola ascendente di Paolo Sorrentino, nato e cresciuto artisticamente in uno dei ventri più prolifici della scena culturale italiana e, nel giro di poco più di dieci anni e con cinque lungometraggi alle spalle, arrivato con la sua sesta opera a coronare il sogno di ogni regista del mondo: sollevare la statuetta dell’Oscar, assegnata per il miglior film in lingua straniera. La sua storia cinematografica potrebbe quasi farlo apparire come un predestinato, perché fin dai suoi primi lavori è possibile scorgere un’anima autoriale forte ed originale, capace di raccontare storie non convenzionali e di smuovere pubblico e critica. Con il suo primo film, L’uomo in più, fa subito il botto conquistando svariati premi, il più importante al Festival del Cinema di Venezia, che gli conferisce l’ambito premio destinato alla migliore opera prima presentata in concorso. La storia, con un respiro molto europeo, sdoganata dai cliché che spesso affliggono il cinema nostrano, si incentra su due personaggi accomunati dal nome e da un destino beffardo che si accanisce contro di loro, portandoli dall’apice delle rispettive carriere ad una burrascosa caduta. Un senso di profonda malinconia pervade l’intera pellicola, che ha anche il merito di far scoprire alle platee cinematografiche un talento del teatro napoletano, Toni Servillo, che diventerà presto l’alter ego del regista proprio come Mastroianni fu per Fellini.
La capacità di raccontare storie non banali insieme ad una perfezione formale che comincia a farsi vedere come tratto distintivo della narrazione si concretizzano nel secondo lavoro di Sorrentino, Le Conseguenza dell’amore, che lo consacra come grande artista capace di ricevere forti elogi sia dalla critica che dal pubblico. Di nuovo Toni Servillo presta la sua maschera imperturbabile ad un personaggio misterioso ed enigmatico, di cui poco si riesce a comprendere per più di metà film. Poi arriva l’amore e tutto deflagra: l’ordine costituito delle cose e la sua ritualità si infrangono contro il più inaspettato e dirompente dei sentimenti, capace di scompigliare le carte e far prendere agli avvenimenti una nuova direzione. Anche se il destino beffardo è sempre all’erta e si manifesta in un epilogo visivamente potente e cinematograficamente indimenticabile.
Dopo una mezza battuta d’arresto con L’amico di famiglia, film di denuncia sull’usura che degrada le anime di chi la compie e di chi è costretto a sottostare alle sue regole, un altro film coraggioso e difficile mette di nuovo tutti d’accordo: Il Divo. Il protagonista della pellicola è nientemeno che Andreotti, l’uomo politico italiano più controverso e chiacchierato, interpretato manco a dirlo da un magistrale Toni Servillo che si trasforma letteralmente nel personaggio, restituendone alla perfezione aspetto e gestualità. Il prestigioso premio della giuria al Festival di Cannes ne sancisce il successo internazionale, mentre le passeggiate notturne dell’uomo politico in una Roma livida e cupa costituiscono un altro fondamentale tassello che va ad incastonarsi nella memoria di ogni cinefilo.
Si diceva appunto della popolarità internazionale che ha la sua consacrazione nel primo film in lingua inglese del regista, This must be the place, girato negli Stati Uniti, con protagonisti del calibro di Sean Penn e Frances McDormand. Ancora una volta è la storia a colpire al cuore, quella di una rockstar non più giovane che attraversa l’America, per riconciliarsi con il padre che non vede da molto tempo. Dialoghi surreali e incontri con personaggi memorabili accompagnano il dolente protagonista e il suo inseparabile trolley verso l’accettazione di sé e del suo destino, fino ad un inaspettato, meraviglioso ed enigmatico epilogo, che riversa sullo spettatore molteplici e fantasiose interpretazioni.
E poi arriva il film perfetto, il film della consacrazione: La grande bellezza. La protagonista assoluta della pellicola è Roma, città caciarona e volgare, percorsa da un’umanità dedita al vizio, alle feste e alla dolce vita. Proprio il famoso film di Fellini, ancora lui, è il viatico principale dell’opera dentro cui si muove Jep Gambardella, interpretato da un sempre perfetto Toni Servillo, che come un moderno Virgilio accompagna lo spettatore fra festini, vuote discussioni e personaggi eccessivi. La Roma felliniana appare degradata e decaduta, una squallida ombra della città eterna che ammaliava e conquistava con la sua vita notturna e il suo fascino intramontabile. Oltre alla storia ci pensano le immagini sognanti e metafisiche della città eterna a renderla un capolavoro di rara intensità e bellezza. Un film vivo, sincero, intenso che spacca pubblico e critica fra ammiratori e detrattori, e che veleggia a suon di premi verso Hollywood da dove farà ritorno in Italia con l’ambita statuetta. Un emozionato Sorrentino, con l’Oscar stretto nella mano sinistra, pronuncerà un indimenticabile discorso concludendo con un sentito ed originale ringraziamento alle sue principali fonti d’ispirazione: Fellini, Scorsese, Maradona e i Talking Heads.
Ed eccoci arrivati all’oggi, all’ultimo lavoro del regista napoletano, la prova più dura, quella a cui tutti ti aspettano al varco dopo il trionfo planetario. Ancora un film in inglese con grandissimi attori come Micheal Caine, Harvey Keitel e Rachel Weisz, che adesso fanno a gara per potersi cimentare con il sofisticato cinema di Sorrentino. Il titolo è Youth - La giovinezza e racconta la malinconica storia di due uomini, un regista e un direttore d’orchestra, ricchi e famosi, che devono confrontarsi con la materia più difficile che esista: la vecchiaia e l’ingombrante presenza della morte. Il film è lento, stilisticamente sofisticato, poetico, con una fotografia delle montagne svizzere di pura perfezione formale. Gli attori, splendidamente calati nei personaggi, restituiscono sullo schermo recitazioni naturali e intense, degne della loro caratura artistica. Eppure il risultato è un passo indietro rispetto al film precedete, di cui si perde la forza dirompente delle idee, dei dialoghi, della musica che tutto copre, della vitalità fisica dei personaggi. Al festival di Cannes non arriva nessun premio, ma il film ha un buon successo al botteghino, segno dell’affetto e dalla curiosità del pubblico verso le opere del regista. Un autore che può piacere e non piacere, ma che sicuramente fa discutere. Un autore capace di raccontare una storia attraverso il fascino e la magia delle immagini, attraverso uno stile personale e seducente, usando a suo favore, grazie ad abili capacità tecniche e artistiche, tutta la potenza evocativa che il grande schermo sa restituire in una buia sala di un cinema.
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