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Giapponesi

Gentilezza e incomunicabilità: alla scoperta di un enigma

Modernità e tradizione, futuro e passato, opposti che si attraggono come i poli di una calamita e trovano la loro espressione in un popolo enigmatico e alieno. Un viaggio in Giappone è innanzitutto questo: un’esperienza antropologica e sociale alla scoperta di un mondo lontano e misterioso. Un mondo che vive allo stesso tempo ancorato ai suoi riti ancestrali e proiettato verso un domani iper-tecnologico. Un binomio difficile da amalgamare per chi fa del presente il tempo in cui proiettare i propri pensieri e poco si cura di orizzonti temporali troppo lontani. Forse è per questo che il popolo giapponese appare tanto sfuggente, lontano e indecifrabile, chiuso dietro quelle strette fessure che ne celano lo sguardo e l’anima. Il nostro viaggio inizia proprio qui, nel vano tentativo di decifrare l’altro, il diverso che ci circonda per le strade, nei ristoranti, fra le mura di un tempio o all’ultimo piano di un grattacielo. 

Esistono tanti modi per entrare in contatto con una nuova cultura e il dialogo è uno dei più semplici e diretti. Purtroppo qui troviamo la prima insormontabile barriera, perché l’inglese, lingua dell’interscambio mondiale, è poco conosciuta, poco parlata. Colpa di un disguido fonetico, che la rende distante dal giapponese, difficile da apprendere data l’assenza di determinati suoni nella lingua del sol levante. Primo ostacolo e non da poco, che ci costringerà spesso a dialoghi surreali, imbarazzati silenzi e a un muro di incomunicabilità impossibile da valicare. E allora ci tocca far tesoro di altri aspetti: gestualità, comportamenti, espressioni, movimenti diventano importanti segni per cercare di decifrare chi ci sta accanto. 

Traspare subito, e questa sì in modo evidente, una smisurata cortesia, una gentilezza che quasi imbarazza tanto è spontanea e priva di interesse. Sorrisi, inchini, continui ringraziamenti, i camerieri che ci accompagnano fin sulla porta dei loro locali per darci l’ultimo saluto, gli abitanti di un paesino che non si rassegano allo scoglio linguistico e cercano in ogni modo di aiutarci a ritrovare la direzione. Assistiamo perfino alla scena di un ferroviere che, prima di partire da una piccola stazione in mezzo al nulla, va' in giro per il paese in cerca di tutti i turisti sparsi per riportarli sul treno e non abbandonarli al loro destino. Tutti si prodigano, tutti cercano di fare del loro meglio nel declinare nel migliore dei modi il termine ospitalità. E c’è da dire che ci riescono alla grande, perché il sentirci coccolati e riempiti di attenzioni facilita l’inserimento, rende meno complicate le situazioni e aiuta il nostro incedere in una terra lontana e apparentemente ostica. Tutto sembra più facile: dove non arriva la parola, puntuale interviene la caparbia gentilezza dei nipponici, incapaci di fallire nel tentativo di farci sentire sempre a nostro agio. Ed eccoci a un’altra di quelle peculiarità tipiche di queste latitudini, in cui l’errore è difficilmente contemplato e la vita diventa un palcoscenico dove chi non fa la cosa giusta diventa oggetto di scandalo e riprovazione. Tutto si traduce in un rispetto del prossimo assoluto: vagoni dei treni silenziosi come chiese, strade immacolate e prive anche degli onnipresenti mozziconi, code ordinate per accedere ai mezzi pubblici e una generale pacata armonia anche nei luoghi più caotici e trasgressivi. 

La trasgressione appunto è il contraltare di quella flemmatica compostezza che pervade l’atmosfera diurna. Di notte il Giappone si trasforma, soprattutto nelle brulicante Tokyo, dove si condensa tutto quanto un paese nel bene e nel male. Le luci al neon si accendono di misteriosi ideogrammi, le rumorose sale giochi si riempiono di abili giocatori di fronte a improbabili sfide, le ragazze in abiti succinti irretiscono i clienti di fronte ai locali e fanno la loro comparsa anche le maid. E’ questa una perversione molto giapponese: giovani bambine adolescenti vestite nelle loro divise liceali, solo un po’ più sexy, che pubblicizzano ristoranti dove altre coetanee del tutto identiche a loro servono i clienti, in un rapporto serva padrone di cui non riusciamo a carpire senso e divertimento. I giovani bevono, fumano, scherzano, si perdono negli immensi negozi di manga, alla ricerca di una ribellione difficile da sostenere e che, proprio per questo motivo, raggiunge a volte livelli esasperati. Dai punk ai reclusi nelle loro abitazioni perché incapaci di relazioni sociali, tutto si estremizza, diventa eccesso, diventa atto di protesta alla perfezione formale imposta. 

Non è tutto rose e fiori insomma: è lo scotto di una cultura che crea omologazione e trova, soprattutto nei giovani, desiderio di evasione e unicità. Non tanti hanno la forza e il carattere di imporre la loro singolarità e molti ragazzi si ritrovano risucchiati in vite preconfezionate: la scuola, l’università e poi il lavoro. Quel lavoro che genera esseri umani in serie, tutti uguali nella loro divisa di ordinanza: scarpe scure, pantaloni scuri e camicia bianca. Sono gli impiegati, caratteristici soprattutto nella capitale, che si muovono in metropolitana a tutte le ore del giorno e della notte, perché il lavoro esige impegno, abnegazione, totale disponibilità e professionalità. Bisogna fare sul serio e dal più giovane al più vecchio, chiunque è consapevole dell’importanza di avere successo, di fare le cose bene e con passione. Le loro vite trascorrono spesso monotone e uguali: lontani dalla famiglia, con un loculo di abitazione, un pasto veloce in un ristorantino di soba e, qualche volta, il crollo fisico e nervoso che spinge alla resa, al fallimento, al suicido. 

Non è facile né da intendersi né da viversi questa nazione ed è per queste ragioni che in soccorso arriva il passato, la tradizione, la gelosa conservazione dei riti ancestrali che costituiscono le fondamenta del paese. La cerimonia del tè è uno di questi, ospitata di solito in edifici in legno tradizionali, consiste nella degustazione di un dolcetto di fagioli e di una tazza di tè verde giapponese. Sembra facile, ma non è così. Una rigida etichetta regola comportamenti e movimenti, seguiti con una lentezza e precisione che affabulano e hanno il sapore di un tempo lontano. Molto spesso poi capita di imbattersi in giovani ragazze che, indossando kimono tradizionali pieni di fiori e decorazioni dai colori pastello, camminano incuranti per strada nei loro piccoli e all’apparenza scomodi zoccoli di legno. Magari con un ombrellino in mano, per ripararsi dalla calura opprimente dell’estate nipponica. A Kyoto abbiamo avuto la fortuna di incontrare anche alcune geishe, coi loro ricchi vestiti, la pelle ricoperta di una polvere bianchissima e un portamento regale assolutamente affascinante. Mestiere antico e duro quello della geisha, raffinata donna di cultura e intrattenimento, che esercita ancora il suo fascino nelle nuove generazioni pronte ad abbandonare tutto per tentare questa nobile e ambita carriera. Esperienza da non perdere è pernottare in un ryokan, locanda tradizionale arredata sullo stile delle vecchie abitazioni locali: tatami per terra, legno e carta sulle porte scorrevoli, tavolini bassi e un morbido futon come letto. Con un po’ di fortuna poi può capitare di poter usufruire di un elegante onsen, bagno termale che aiuta a rilassare anima e corpo dopo una faticosa giornata. E magari di gustarsi una cena tradizionale in camera, serviti da una dolce e anziana cameriera che si inginocchia al tavolino con grazia e, in un misto di inglese e giapponese, cerca di spiegare le strane pietanze che reca con sé. 

Il cuore della tradizione giapponese è la religione. Il paese è disseminato di templi shintoisti e buddisti, e la maggior parte della popolazione dichiara di seguire entrambe le confessioni: una peculiarità questa che, in un mondo dove si combattono guerre in nome delle differenza di fede, ci appare una stupefacente meraviglia. I templi sono luoghi assolutamente fantastici. Si possono, in modo grossolano, distinguere in due tipologie. Quelli pieni di gente, statue, gong che risuonano nell’aria, incensi che bruciano emanando suadenti effluvi, monete che tintinnano dentro le cassette per le offerte, bonzi che spandono le loro monocrome litanie, buddha placidi e sorridenti, minacciosi e forzuti guardiani di terracotta alle porte, svettanti silhouette di pagode, rossi torii, bianche lanterne di carta con ideogrammi indecifrabili, grosse funi di canapa. E poi ci sono quelli di cui ci siamo innamorati. Templi silenziosi, riservati, spesso circondati da mura, all’interno delle quali è possibile ritrovarsi catapultati un altro mondo; templi senza alcuna immagine religiosa, a volte solo un piccolo e buio altare, molto più simili ad eleganti abitazioni con porte scorrevoli e tatami su cui sedersi e meditare. Proprio la meditazione è il fine ultimo di questi luoghi, la contemplazione dei loro magnifici e perfettamente curati giardini, l’ascolto del silenzio, la pace e l’armonia zen della ghia rastrellata su cui galleggiano isolate pietre lucide e nere. 

Atmosfere arcaiche impregnano questi luoghi di purezza, la stessa che si respira nei magnifici giardini che costellano la nazione. Viene infatti dal lontano passato l’usanza di modellare gli spazi verdi con eleganza e perfezione formale, senza lasciare al caso neppure la sregolata magia della natura. Siepi perfettamente allineate, alberi potati come giganteschi bonsai, distese di muschio amorevolmente curato da solerti giardinieri e specchi di placide acque in cui ogni cosa si specchia vezzosamente. Capita perfino di imbattersi in inservienti che muovono le loro scope nei greti di poco profondi corsi d’acqua per rimuovere dalle pietre perfettamente posate sul fondo, lo strato di terra che una generosa pioggia ha depositato. Oppure di notare con stupore come ogni singolo nodo adoperato per tenere insieme i flessuosi tralicci che delimitano le aiuole sia uguale al precedente e così all’infinito, in un estremismo di precisione che sfiora la maniacalità. Facile immaginare come per i giapponesi la tradizione sia un piacevole e rilassante rifugio alla vita di tutti i giorni. Un momento prezioso di pausa alla pressanti aspettative di una nazione intera nei confronti dei suoi abitanti. Dopotutto non è poi così astruso immaginare che la precisione dei treni che non sgarrano mai dall’orario previsto, la pulizia delle strade, anche se risulta estremamente complicato trovare un cestino dell’immondizia dove liberarsi dai propri rifiuti, la compostezza e il rispetto delle regole non necessitino una valvola di sfogo. Ed ecco quindi la ribellione e la tradizione, l’ultramoderno e il remoto, due differenti strade che vengono percorse per ritrovare l’io, sepolto dalle convenzioni sociali. E poter raggiungere in questo modo la propria completezza di essere umani. Senza però dimenticare che niente è comunque paragonabile a quanto noi occidentali siamo abituati, perché pur sempre di alieni stiamo parlando.

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