Le attuali frontiere del neocolonialismo
Lo sfruttamento delle risorse che mette in ginocchio il pianeta
Credevamo che il colonialismo, fenomeno storico di sfruttamento di paesi conquistati, si fosse concluso nel XX secolo, con la raggiunta indipendenza di quelle che erano le colonie europee nel mondo. Ma i potenti non hanno rinunciato al loro dominio, hanno solo cambiato i loro metodi: il furto delle risorse altrui oggi si chiama speculazione, gioca in finanza e prende forma nell’accaparramento di terreni, fonti d’acqua e di petrolio, moderni beni rifugio al sicuro da crolli. E così aziende multinazionali e di dimensioni più contenute, istituzioni finanziarie internazionali e istituti di credito, imprese assicurative e fondi d’investimento privati si accordano a vari livelli con i governi di molti paesi del sud ed est del mondo, per comprare e depredare a scapito delle popolazioni locali. Si parte dalla terra, sottratta al demanio per essere affittata a prezzi a dir poco stracciati (anche solo 10 € per ettaro all’anno) per arricchire le casse statali, senza lasciare agli abitanti nessuno strumento legale di difesa. I terreni vengono quindi cintati e sfruttati con monocolture per il mercato internazionale e i corsi d’acqua deviati per irrigare. Nel caso di zone selvagge e lussureggianti vengono semplicemente lasciate intatte, perché grazie all’invenzione del Mercato dei crediti di carbonio è possibile scambiare la produzione naturale di ossigeno in un’area del mondo con la possibilità di inquinare in un altro luogo: immissioni per emissioni. In entrambi i casi le conseguenze ricadono su chi quelle terre le abitava o le utilizzava da sempre per coltivare, allevare, cacciare o raccogliere ad esempio il legname o la sabbia per le costruzioni tradizionali. Solitamente guardie armate vigilano a che nessuno valichi i limiti e le persone della zona sono costrette a percorrere chilometri e chilometri per aggirarli, per raggiungere altri pascoli fertili o il mercato più vicino. Quando gli accordi vengono conclusi gli investitori stranieri pubblicizzano sempre la creazione di nuovi posti di lavoro col conseguente benessere, ma in realtà spesso restano solo parole al vento o vengono proposti salari al limite della schiavitù: non ci sono risvolti positivi per la gente, solo espropriazioni e difficoltà. Lo stesso dramma circonda
l’accaparramento di un altro genere di risorsa: le fonti d’energia fossile. Qui entrano in gioco le grandi multinazionali estrattive, che si tratti di combustibili fossili, gas o minerali. Ormai, con l’esaurimento dei giacimenti tradizionali e la richiesta in continua crescita, non c’è più limite ai luoghi in cui estrarre, utilizzando tecnologie sempre più complesse e pericolose per l’ambiente. E collegati agli impianti si srotolano immense reti di tubi, oleodotti e gasdotti che percorrono migliaia di chilometri fino a dove gas e petrolio verranno consumati. Le fasi estrattive producono un inquinamento fatale al territorio, ancora una volta a danno delle popolazioni locali, che si vedono sottratta la fonte primaria di sostentamento, la natura, con la conseguente crisi sociale che la fame genera. Ne è un drammatico esempio la situazione nella regione del delta del Niger, dove le multinazionali estraggono oro nero realizzando profitti da capogiro (8 miliardi di dollari per la Shell nel solo primo trimestre 2013), dove il suolo non è più fertile e i pesci non abitano più i fiumi e i laghi, dove intere comunità sono martoriate da scontri armati e violenze, conseguenti alla povertà in cui sono precipitati. In Amazzonia, altra zona del mondo in cui le multinazionali del petrolio sfruttano e devastano l’ambiente, dove l’erosione del suolo, l’inquinamento dell’aria, del terreno e dell’acqua sono ormai una triste realtà, si è provato ad arginare il problema con una moratoria sulle estrazioni.
Ricordate che alcuni anni fa si parlava del progetto di “lasciare il greggio nel sottosuolo”? C’era stato un accordo storico, su iniziativa del presidente dell’Ecuador Rafael Correa che l’aveva proposto all’ Assemblea delle Nazioni Unite: per proteggere il parco nazionale dello Yasunì, nel cui sottosuolo è presente il 20% delle riserve nazionali di petrolio: l’Ecuador non avrebbe dato il via alle trivellazioni e in cambio nell’arco di tredici anni la comunità internazionale avrebbe compensato il mancato guadagno versando la metà del valore stimato. L’iniziativa era tesa a preservare la biodiversità della zona, a proteggere le tribù indigene che vivono in isolamento volontario e ad evitare emissioni di CO² (derivanti dall’estrazione, dall’utilizzo e dalla deforestazione). Ma nonostante gli impegni e le promesse della comunità internazionale nell’agosto 2013 solo lo 0.37% della compensazione era stato versato ed il governo ecuadoriano ha annunciato la resa e l’inizio delle trivellazioni, fra le proteste della società civile. Infine l’acqua: sottratta, privatizzata, accumulata, inquinata. La nostra risorsa più importante, indispensabile alla vita stessa, è diventata merce di scambio, è sfruttata e devastata, con effetti terribili sulle popolazioni e l’ambiente. Nonostante una risoluzione ONU abbia sancito nel 2010 il diritto all’acqua per tutti, in tutto il mondo è in atto la privatizzazione del servizio idrico con la conseguente trasformazione del diritto in bisogno. Grandi dighe per lo più private, sono state
costruite sul 60% dei fiumi del pianeta, fra deviazioni dei corsi e allagamenti di valli: un esempio è la diga di Meshawar che in India ha costretto più di un milione di persone a sfollare e che impedisce l’accesso al fiume e al bacino artificiale, sia per attingere all’acqua, che per navigarvi, per pescare o raccogliere la sabbia per le costruzioni ...insomma, le comunità locali sono defraudate di tutte le risorse per le attività economiche tradizionali. La privatizzazione s’insinua celandosi sotto la maschera dell’efficienza e intanto immense quantità d’acqua vengono giornalmente inquinate in tutto il mondo durante i processi estrattivi e industriali, le promesse di “sviluppo economico” restano sulla carta mentre si ha un peggioramento reale delle condizioni di vita, con infezioni, malattie e raccolti contaminati. Fra pesticidi, concimi chimici e residui animali, anche le moderne forme di agricoltura
e allevamento intensivi fanno la loro parte, ma i governi guardano altrove, al guadagno ricavato dalle concessioni siglate. Ogni volta che un’azienda, un’istituzione finanziaria o di credito, un’impresa assicurativa o un fondo d’investimento, arriva in un territorio e si appropria del diritto di accesso, di controllo e di gestione delle risorse, impedendone il godimento alle comunità locali, si ha una forma di sfruttamento che non ha particolari differenze da quello che erano i risultati del colonialismo classico. Anche oggi le conseguenze sono l’impoverimento delle persone e dell’ambiente naturale, gli equilibri del territorio vengono alterati senza alcun beneficio per le popolazioni locali, che anzi subiscono inquinamento, danni alla salute e lo scardinamento del sistema economico preesistente. La retorica della promozione dello sviluppo e della crescita, che viene utilizzata per sostenere investimenti e progetti, come abbiamo visto non porta a nulla di concreto e quando le comunità si organizzano per proteggere l’ambiente sono accusate di sabotaggio e terrorismo, e trattate come fossero loro i criminali. La sovranità delle comunità locali sul proprio territorio viene annullata ed annientata, in nome della massimizzazione dei profitti. La situazione è drammatica, noi qui non ce ne accorgiamo perché le risorse che vengono così accaparrate e sfruttate sono in luoghi geograficamente lontani, ma non dimentichiamo che tutte le decisioni in merito vengono prese nel nostro angolo di mondo, all’interno delle società dei paesi più sviluppati (e perciò più ricchi e più potenti) in cui coesistono filosofie illuminate, attente al prossimo e alla natura, e calcolati interessi economici, cechi a tutto ciò che non è guadagno.
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