Il Vagabondo
Gennaio - Febbraio 2014
Numero 32 Anno IX
pensieri vagabondi su viaggi, letteratura, cinema, musica e tutto ciò che ci passa per la testa
Viaggio del mese
Cambogia, alla corte dei khmer
Fa già caldo quando atterriamo all’aeroporto di Phnom Penh. Sono le otto del mattino e un cielo di un azzurro tenue ci dà il primo benvenuto in terra cambogiana. Il traffico caotico ci avvolge, mentre ci spostiamo verso il centro città a bordo di un grossa automobile guidata da un ragazzino, che sembra a malapena maggiorenne.
Auto, ma sopratutto motorini di ogni tipo, riempiono la strada. Non sembrano esserci regole in questa giungla d’asfalto, e nemmeno semafori o altri cartelli a darne parvenza. Ognuno si sposta come ritiene necessario, le fermate sono quasi inesistenti, al massimo si rallenta alla ricerca di un pertugio dove infilarsi. Un’anarchia stradale dove tutti si fanno gli affari loro e nessuno si lamenta. Durante il tragitto ci imbattiamo anche in tanti piccoli assembramenti rumorosi: i giovani scioperano e protestano per un salario migliore e una democrazia trasparente, ma il governo, come spesso capita, sembra duro d’orecchi.
donne si lanciano in allegre sessioni di aerobica, mentre i viaggiatori si lasciano sedurre dal languido scorrere della vita, sorseggiando birra sulla terrazza di qualche locale alla moda. E’ racchiusa tutta qui la moderna Phnom Penh, il resto della città è tutta un’altra cosa.
Il lungofiume è la parte della città più ricca, qui si affacciano i migliori alberghi, i migliori locali, le case più belle. Qui, proprio nel punto in cui le acque scure e terrose del Tonlé Sap sfociano nell’immensità del Mekong, si può ancora scorgere l’eleganza di quella che un tempo era la città indocinese più affascinante e vivace. Era il tempo del protettorato francese, quando bei palazzi e una vita notturna frizzante facevano di Phnom Penh un sogno tropicale ed esotico. Poi trent’anni di guerra civile hanno azzerato quasi tutto. Ripartire non è stato facile, ma oggi la capitale cambogiana cerca di lasciarsi alle spalle il turbolento passato e trovare una nuova dimensione.
Tirati splendidamente a lucido appaiono i templi cittadini, luoghi di incredibile pace e quiete, dove le gente si rifugia per pregare, fare offerte e accendere profumati incensi in onore di Buddha, il misericordioso. Il fervore religioso si avverte forte e profondo, ed è stata sicuramente una delle armi che hanno permesso al popolo cambogiano di rialzarsi sempre, di fronte a ogni tragedia. Architetture mirabolanti e luccicanti segnalano la presenza di questi luoghi di culto, fino al Palazzo Reale che racchiude all’interno delle sue rosse mura un meraviglioso connubio di edifici civili e religiosi, avvolti da un verde curato e decorativo che conferisce all’insieme un’aura di estrema e pura eleganza.
Lo scopriamo scorazzando in tuk-tuk, le famose moto con rimorchio che hanno sostituito i più faticosi risciò, in compagnia di un allegro centauro, che si fa chiamare cowboy. Povertà e degrado, sporcizia e rifiuti sono un po’ dappertutto, mercatini disordinati, case segnate dal tempo e manciate di fili elettrici che corrono confusi da un palo all’altro, danno il senso di un luogo con ancora tanta strada da dover percorrere. Uno dei motivi lo approfondiamo all’interno del museo di Tuol Sleung, un tempo tristemente noto e temuto carcere dove i famigerati Khmer Rossi torturavano i nemici della rivoluzione. Le foto dei tanti detenuti sembrano non finire mai, le anguste celle di legno o mattoni trasmettono claustrofobiche sensazioni, l’orrore trasuda dalla pareti ricoperte di filo spinato. E una volta estorta la confessione, tutti su un camion direzione Cheung Ek.
Con il calar della sera arriva il fresco e il lungofiume si anima: i bambini giocano a pallone, le
Così facciamo anche noi e ci ritroviamo di fronte a uno dei luoghi più impregnati di tragicità e angoscia mai visti prima. Le fosse comuni sono ancora in parte lì e, ogni tanto, è possibile scorgere un frammento di abito, un osso, un dente che sporgono fuori dalla terra. La tragedia umana ci ammutolisce e disarma: compriamo un fiore e, nel silenzio, lo depositiamo in un vaso, posto di fronte all’ingresso dello stupa eretto per commemorare questa strage di innocenti. Al suo interno una distesa di teschi, raccolti in teche uno sopra l’altro, spandono nel piccolo ambiente un grido straziante e silenzioso, un grido che trasuda orrore e ingiustizia.
Dopo due intensi giorni nella capitale, ci imbarchiamo alla volta di Siem Reap. Seduti sul tetto di un natante lungo e bianco come il sale, assistiamo alla rappresentazione della vita di tutti i giorni alla maniera cambogiana. Case rialzate su pali di legno simili a palafitte costellano le rive: abitazioni sicure, a prova di monsoni e inondazioni, ma anche piccole, anguste ed estremamente misere.
Nel mezzo di questi piccoli villaggi fluttuanti, si muove un’umanità timida e laboriosa, e tanti bambini che ci osservano con grandi occhi curiosi, che si aprirono in un largo e dolce sorriso mentre rispondono con allegria ai nostri cenni di saluto. Altri uomini solcano le torbide acque del Tonlé Sap su sottili imbarcazioni fatte di assi di legno, e si danno da fare con le reti nella speranza che la giornata gli conceda una buona pesca. La natura è meravigliosa: alte palme che ricamano l’orizzonte, distese infinite di terre piatte e tanta acqua, che a un certo punto prende possesso di tutto. Un enorme laguna si dispiega davanti a noi, una laguna dove esseri umani piccoli come formiche coltivano, gli alberi sembrano nuotare tranquilli e incredibili case galleggianti ci ricordano come il concetto di abitazione non sia uguale da tutte le parti. Un viaggio bellissimo alla scoperta di un universo lontano, quasi difficile da concepire, povero ma affascinante, duro e primordiale come la lotta per la sopravvivenza.
E infine arriviamo a Siem Reap. Una cittadina di provincia polverosa e anonima, nel bel mezzo della Cambogia, che sembra non abbia niente da offrire. Eppure una sosta qui è imprescindibile per chi visita questo paese, perché a breve distanza, giusto il tempo di una bella galoppata in tuk-tuk, fu edificata la misteriosa e mitica capitale dell’antico impero khmer: Angkor.
Sono tre giorni incredibili, al cospetto di una meraviglia che non smette mai di emozionarci e sorprenderci. Anche se l’antipasto dell’Angkor Wat, l’edificio religioso più grande del mondo, con i suoi perfetti bassorilievi, i prasat affusolati che svettano nel cielo e una giungla lussureggiante come cornice potrebbero indurre anche il più tenace viaggiatore a non aspettarsi di meglio.
E invece ecco che appare il Bayon, un affascinante tempio dalle molteplici torri, che si specchia lascivo e un po’ vanitoso in un piccolo bacino stagnante. Le miriadi di volti dal sorriso dolce ed enigmatico che prendono forma sui prasat rendono l’edificio carico di un senso profondo di mistero e seduzione.
Contemplare ed essere contemplati, in un gioco di sguardi e rimandi impossibile da evitare, regalano l’emozione di ritrovarsi immersi in un’atmosfera onirica. Alte e ripide scale da arrampicare ci riportano ad una realtà fatta di fatica e sudore, accompagnate però dal dolce sapore di nuove ed inaspettate scoperte. Apsara danzanti, sacerdotesse procaci, simpatici elefanti o minacciosi naga, per non parlare delle tante rappresentazioni di Vishnu: ogni parete, ogni muro, ogni recesso racconta storie antiche e seducenti, di un mondo di profonda devozione, di battaglie e amori, di rivalità ed epica grandezza. Induisti, potenti guerrieri e mirabili cesellatori di pietre, i khmer non smisero mai di ingrandire e abbellire la loro sontuosa capitale: ogni re doveva
rivaleggiare con il suo predecessore, ogni regnante doveva legare il suo nome ad un’opera che ne immortalasse il ricordo.
Anche la natura non può esimersi dal partecipare a tanto sfoggio di bellezza. Regalando con i suoi forti e potenti abbracci alcuni degli angoli più suggestivi e pittoreschi dell’intero complesso archeologico. Le radici di alberi giganteschi avvolgono con trame intricate la pietra, in una rappresentazione corale che aumenta il senso di esotica scoperta e ci cala nei panni di avventurosi esploratori al cospetto di una città
nascosta. Giungla creatrice, giungla predatrice, giungla atavica, che cela per poi alzare il sipario su altre opere umane. Connubio perfetto quello che si instaura fra natura e costruzioni, forse perché tutto è ormai cristallizzato dalla storia e nessuno può mutare la
perfetta fusione raggiunta.
Mirabili bassorilievi ne accompagnano il corso, accarezzati dalle acque limpide, irradiati dai fugaci raggi di sole che riescono a penetrare la fitta coltre di vegetazione. Sono acque sacre quelle
che scorrono in mezzo a tali figure, e la gente del posto ne apprezza i benefici bagnandosi sotto scroscianti piccole cascate in un misto di venerazione e divertimento. Al termine delle tre intense giornate salutiamo Red, il nostro fido autista, che ha affrontato intrepido il freddo mattutino e i dolori alla schiena per portarci dove la nostra curiosità desiderava condurci.
Una lunga corsa su una strada poco trafficata e irraggiata dal sole, ci porta infine agli ultimi gioielli, quelli più remoti, più difficili da raggiungere, ma non meno stupefacenti. In un piccolo e semplice tempio, edificato questa volta non da un re ma da un bramino, scopriamo la perfezione formale e la ricchezza degli intagli: scene complesse e minuziose, personaggi e animali fantastici che il sole del mattino accarezza dolcemente, illuminando la pietra di un arancione caldo e sensuale. E poi l’opera più stravagante e indecifrabile di tutte. Dopo un’impegnativa passeggiata in mezzo ad una giungla densa e silenziosa, tra alberi frondosi e un verde avvolgente, arriviamo nei pressi di un ruscello.
E dopo aver salutato l’arrivo del nuovo anno fra fuochi d’artificio, musica e balli scatenati, ci immergiamo nella realtà rurale del paese, alla scoperta dei suoi villaggi lontani dai circuiti turistici, della sua gente e delle sue usanze. Un’agenzia che promuove
riso. Dopo una mattinata di fatica, il meritato premio si traduce in un succulento pranzo a base di curry, frutta e pesce fritto, consumato all’aperto di una piccola casa di legno e palme e preparato da una dolce anziana signora, con una sciarpa rossa khmer arrotolata sul capo. Rifocillati, gironzoliamo per il paese fra negozietti di alimentari, bancarelle e tanti bambini bellissimi che ci scrutano curiosi e un po’ impauriti, con i loro occhi profondi e scuri, ancora sospesi nel meraviglioso mondo
esperienze all’insegna dell’etica e dello scambio culturale, ci offre l’opportunità di calarci nella vita quotidiana di un piccolo centro abitato sparpagliato nella pianura. Impariamo così a raccogliere il riso, con un falcetto e un berretto di paglia in testa per ripararci dal sole, rendendo meno duro il lavoro delle donne. Già perché qui sono più che altro le donne ad occuparsi dei campi e della casa, mentre gli uomini sono fuori a cercare di sbarcare il lunario con qualche lavoretto. Sono le donne che crescono i figli, che curano il raccolto, che si immergono con i piedi fino alle caviglie nell’acqua per raccogliere il
dei piccoli, ma già segnati da un destino senza troppe scappatoie. Tutti sono gentili, sorridenti, anche se un po’ schivi, forse intimiditi, ma ugualmente cordiali e socievoli. Il ritorno al mondo è piuttosto traumatico. Non basta un succulento amok, piatto tradizionale cambogiano a base di pesce e dolci spezie, a salvarla.
Il pullman notturno che ci porterà a Sihanoukville è infatti molto lontano dalle nostre aspettative. Scuro e asettico, con letti rigidi che sembrano scomode barelle e un doppio livello che rende i piani inferiori molto simili a tetri loculi. Ci si mette anche la strada dissestata a rendere impossibile il dormire, trasformandolo in un continuo e interminabile dormiveglia. Dopo una sosta non prevista un secondo pullman ci trascina fino al mare, in un desiderio irrefrenabile di arrivare e concedersi una doccia rigenerante.
Alla fine basta poco per lasciarsi alle spalle l’infinito e scomodo viaggio, basta sedersi su una sdraio con un rinfrescante fruit shake davanti e godersi il sole che cala lento sull’orizzonte. E’ un tramonto che significa vacanza, perché il nostro girovagare inquieto in terra cambogiana si ferma qui. Adesso è tempo di riposo, di calma, quiete e tranquillità, di pigre nuotate e lunghe sessioni di abbronzatura, sdraiati sul soffice arenile.
Otres beach è il posto ideale per mettere in pratica i nostri propositi di indolenza: una lunga spiaggia di sabbia fine e bianchissima, un mare calmo dalle tonalità verde smeraldo e morbidi cuscini ombreggiati dagli alberi su cui gustare
po’ troppo affollata, dove truppe di ragazzini giocano felici, in un clima di frenetica agitazione, come se ogni attimo trascorso qui dovesse essere sfruttato fino in fondo. Ma è tutto così idilliaco che il rumore si trasforma in una dolce melodia di voci e risate, mentre le nostre membra si lasciano cullare dall’acqua calma e cristallina, illuminata da un sole che scalda senza bruciare. E’ l’ultimo attimo di vera magia, prima di venir risucchiati nel vortice della malinconia da ritorno, con le prima nuvole del viaggio a coprire il cielo e renderlo quasi triste, solidale con la partenza imminente.
Quando cala la sera il ritmo cambia e inizia una festa fatta di musica a tutto volume e continui fuochi d’artificio ad illuminare il buio della notte. Per un po’ ci lasciamo sedurre e ci ritroviamo immersi in un mondo psichedelico di suoni e luci, danze e divertimento, un mondo di plastica inebriante e caotico. Rigenerati dai ritmi vacanzieri, salpiamo su una tipica imbarcazione dalla struttura affusolata, alla scoperta delle tante isole che coronano la costa. Alcune sono solo piccoli atolli ricoperti di folta vegetazione, senza possibilità di attracco ma con fondali ricchi di nerissimi ricci dai lunghissimi aculei sporgenti, danzanti anemoni e grosse spugne. Quando sbarchiamo ci ritroviamo in una spiaggia paradisiaca dal fascino tropicale, anche se un
pesce e verdure. E’ la giornata che ci voleva: un pieno di relax e pace, per rigenerare il fisico e rilassare la mente. Il posto poi è ideale allo scopo, perché ancora poco sfruttato turisticamente e quindi privo di quelle orde barbariche che trasformano ogni luogo con la loro ingombrante presenza.
Una folle corsa in pullman, l’ultimo succoso ananas mangiato come un cono gelato e le tante facce brune con cui incrociamo lo sguardo ci danno il loro commiato da un paese splendido e accogliente, povero e caparbio: un paese che ci è entrato dentro fino a toccare le corde del nostro cuore. Lasciando indelebili tracce, impossibili da cancellare.