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Novembre 2006

Il Vagabondo

Numero 2 Anno I

pensieri vagabondi su viaggi, letteratura, cinema, musica e tutto ciò che ci passa per la testa

Letteratura

Primo Levi

"Tutti coloro che dimenticano il proprio passato sono condannati a riviverlo"

"Se questo è un uomo" è un romanzo, una fonte storica, un testo scritto nel secondo dopoguerra e dettato dalla necessità di gridare l’incubo vissuto; un manoscritto che nel 1947 Einaudi rifiutò perché in quegli anni non c’era la volontà di riaffacciarsi sull’orrore appena terminato e che nel ’58 pubblicò, dando il via ad un’ampia diffusione su scala mondiale.

Chichen Itza

Scorrere le pagine di questo libro è fare un salto indietro nella storia: le parole di Levi illuminano l’oscurità di un incubo reale, vissuto da milioni di persone poco più di mezzo secolo fa. In esso è contenuta la sua terribile esperienza di haftling 174517 dal febbraio 1944 al gennaio 1945, all’interno di una struttura narrativa dalla duplice identità. Essa è infatti costruita solo in parte sull’ordine cronologico degli avvenimenti: il primo capitolo racconta la sua cattura e l’angosciante viaggio verso Auschwitz, mentre l’ultimo chiude l’opera narrando della liberazione; ma nelle circa duecento pagine comprese fra questi due momenti, la descrizione abbandona l’ordine temporale, per seguire quello dell’urgenza di raccontare e del bisogno di far conoscere ad altri ciò che è stato.

Incontriamo quindi capitoli interamente dedicati a particolari aspetti della vita del campo, come la descrizione del Ka-Be, l’infermeria nella quale dare un poco di tregua alle membra esauste o cercare di far guarire ferite che ogni giorno si riaprono; o la descrizione del lavoro, durissimo e da svolgere in ogni condizione meteorologica per tutta la durata della luce solare. Toccante è la sezione in cui racconta “le nostre notti”, popolate da incubi che ad ogni riposo si ripresentano con poche variazioni a quasi tutti i prigionieri: il dolore di tutti i giorni si traduce in una scena calda e familiare,  ambientata  nel  salotto di casa brulicante  di   persone   amiche,   le   sensazioni    sono positive ed il sognatore sta narrando ai propri cari le sue esperienze in lager, finché qualcosa rompe l’armonia. Finché il protagonista si rende conto di non essere ascoltato: tutti gli sono completamente indifferenti, come se lui non ci fosse;  allora  “nasce in  me  una  pena  desolata, come certi dolori appena ricordati della prima infanzia: è dolore allo stato puro”, dal quale è meglio risvegliarsi. “Tutta la sofferenza del giorno, composta di fame, percosse, freddo, paura e promiscuità, si svolge nella notte in incubi informi di inaudita violenza, quali nella vita libera occorrono solo nelle notti di febbre. Ci si sveglia a ogni istante, gelidi di terrore, con un sussulto di tutte le membra, sotto l’impressione di un ordine gridato da una voce piena di collera, in una lingua incompresa”.

Le descrizioni dei fatti e della vita nel campo si intrecciano alle profonde riflessioni sull’uomo: circa le diverse reazioni alla nuova quotidianità, all’assenza di spiegazioni razionali, all’orrore e alla totale, disarmante certezza di non avere più prospettive di un futuro libero. Quest’ultima è il risultato dell’opera di annientamento che il lager attua nelle coscienze di tutti gli “ospiti”, insinuando in esse il germe della morte interiore: quando un prigioniero smette di essere un individuo, di sperare e di pensare a qualche mezzo o sistema che gli permetta di sopravvivere un poco più a lungo (un modo per defilarsi dal lavoro più duro o per guadagnare qualche grammo di pane), esso facilmente soccomberà. Questa la conclusione a cui giunge Levi analizzando la realtà del campo come fosse un esperimento di sociologia, nel capitolo dedicato ai “sommersi e salvati”, coloro che hanno ceduto all’apatica obbedienza fino in fondo, e coloro i quali hanno in qualche modo lottato, almeno interiormente, per continuare a considerarsi esseri umani.

Un ultimo accenno al “canto di Ulisse”, commovente racconto di un dialogo fra il protagonista ed un compagno di lavoro francese: lungo la strada verso le cucine, Levi ricorda Dante e, citando a Jean parti del XXVI canto dell’Inferno, riflette sulla forza delle parole del poeta in rapporto alla vita in lager. “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza” acquista un valore terribilmente attuale: i prigionieri sono disumanamente costretti a “viver come bruti”, sia dai regolamenti interni, che dalla legge di sopravvivenza, mentre “virtute e conoscenza” sono relegate ai rari attimi di pace, sempre che si abbiano le forze per meditare. Leggere questi versi ed immaginare di ascoltarli in mezzo alla barbarie creata dal nazismo, infonde una speranza di umanità, una luce nelle tenebre a cui la ragione così frequentemente si abbandona, un caldo momento di poesia che scioglie per un istante il gelo dai cuori.

Palenque

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