top of page

Novembre 2006

Il Vagabondo

Numero 2 Anno I

pensieri vagabondi su viaggi, letteratura, cinema, musica e tutto ciò che ci passa per la testa

Attualità

Israele e Palestina

E' tempo di fare uno sforzo per la pace

Gli ebrei sopravvissuti al ciclone nazismo vivono adesso nello stato di Israele e non hanno ancora trovato la pace. Un bel po’ di responsabilità è però da ascriversi alle stesse persone che governano lo stato ebraico. E la situazione negli ultimi tempi non lascia presagire nulla di positivo per il futuro. Ma fra la popolazione israeliana la voglia di pace è grande come si evince dalle parole di Grossman, scrittore pacifista che nell’ultima guerra sferrata dal suo paese contro gli Hezbollah libanesi, ha perso il figlio Uri di 21 anni. Ecco i punti salienti del suo discorso pronunciato nell’undicesimo anniversario della morte del premio Nobel per la pace Rabin.

Il ricordo di Yitzhak Rabin è un momento di pausa in cui riflettiamo anche su noi stessi. Quest´anno la riflessione non è per noi facile. C´è stata una guerra. Israele ha messo in mostra una possente muscolatura militare dietro la quale ha però rivelato debolezza e fragilità. Abbiamo capito che la potenza militare in mano nostra non può, in fin dei conti, garantire da sola la nostra esistenza. Abbiamo soprattutto scoperto che Israele sta attraversando una crisi profonda, molto più profonda di quanto immaginassimo, una crisi che investe quasi tutti gli aspetti della nostra esistenza. 

Parlo qui, stasera, in veste di chi prova per questa terra un amore difficile e complicato, e tuttavia indiscutibile. Come chi ha visto trasformarsi in tragedia, in patto di sangue, il patto che aveva sempre mantenuto con essa. Io sono laico, eppure ai miei occhi la creazione e l´esistenza stessa di Israele sono una sorta di miracolo per il nostro popolo, un miracolo politico, nazionale e umano; e io non lo dimentico neppure per un istante. Anche quando molti episodi della nostra realtà suscitano in me indignazione e sconforto, anche quando il miracolo si frantuma in briciole  di  quotidianità,   di  miseria  e  di  corruzione, anche  quando la realtà  appare  una brutta parodia del miracolo, esso per me rimane tale. (…) 

La morte di giovani è uno spreco terribile, lancinante. Ma non meno terribile è che Israele sprechi in modo criminale non solo le vite dei suoi figli ma anche il miracolo di cui è stato protagonista, l´opportunità grande e rara offertagli dalla storia, quella di creare uno stato illuminato, civile, democratico, governato da valori ebraici e universali. Uno stato che sia dimora nazionale, rifugio e anche luogo che infonda un nuovo senso all´esistenza ebraica. Uno stato in cui una parte importante e sostanziale della sua identità ebraica, della sua etica ebraica, sia mantenere rapporti di completa uguaglianza e di rispetto con i suoi cittadini non ebrei. 

E guardate cosa è successo. Guardate cosa è successo a una nazione giovane, audace, piena di entusiasmo. Guardate come, quasi in un processo di invecchiamento accelerato, Israele è passato da una fase di infanzia e di giovinezza, a uno stato di costante lamentela, di fiacchezza, alla sensazione di aver perso un´occasione. Com´è successo? Quando abbiamo perso la speranza di poter vivere un giorno una vita migliore? E come possiamo oggi rimanere a guardare, come ipnotizzati, il dilagare della follia, della rozzezza, della violenza e del razzismo in casa nostra? Com´è possibile che un popolo dotato di energie creative e inventive come il nostro, che ha saputo risollevarsi più volte dalle ceneri, si ritrovi oggi, proprio quando possiede una forza militare tanto grande, in una situazione di inerzia e di impotenza? Situazione in cui è nuovamente vittima, ma questa volta di sé stesso, dei suoi timori, della sua disperazione e della sua miopia. (…)

E guardate cosa è successo. Guardate cosa è successo a una nazione giovane, audace, piena di entusiasmo. Guardate come, quasi in un processo di invecchiamento accelerato, Israele è passato da una fase di infanzia e di giovinezza, a uno stato di costante lamentela, di fiacchezza, alla sensazione di aver perso un´occasione. Com´è successo? Quando abbiamo perso la speranza di poter vivere un giorno una vita migliore? E come possiamo oggi rimanere a guardare, come ipnotizzati, il dilagare della follia, della rozzezza, della violenza e del razzismo in casa nostra? Com´è possibile che un popolo dotato di energie creative e inventive come il nostro, che ha saputo risollevarsi più volte dalle ceneri, si ritrovi oggi, proprio quando possiede una forza militare tanto grande, in una situazione di inerzia e di impotenza? Situazione in cui è nuovamente vittima, ma questa volta di sé stesso, dei suoi timori, della sua disperazione e della sua miopia. (…) Quando è stata l´ultima volta che il Primo Ministro ha espresso un´idea o compiuto un passo in grado di spalancare un nuovo orizzonte agli israeliani? Di prospettare loro un futuro migliore? Quando mai ha intrapreso un´iniziativa sociale, culturale, morale, senza limitarsi a reagire scompostamente a iniziative altrui?

Signor Primo Ministro. Non parlo spinto da un sentimento di rabbia o di vendetta. Ho aspettato abbastanza per non reagire mosso dall´impulso del momento. Questa sera lei non potrà ignorare le mie parole sostenendo che: "Non si giudica una persona nel momento della tragedia". È ovvio che sto vivendo una tragedia. Ma più di quanto io provi rabbia, provo dolore. Provo dolore per questa terra, per quello che lei e i suoi colleghi state facendo. Mi creda, il suo successo è importante per me perché il futuro di noi tutti dipende dalla sua capacità di agire. Yitzhak Rabin aveva imboccato il cammino della pace non perché provasse grande simpatia per i palestinesi o per i loro leader. Anche allora, come ricordiamo, era opinione generale che non avessimo un partner e che non ci fosse nulla da discutere con i palestinesi. Rabin si risolse ad agire perché capì, con molta saggezza, che la società   israeliana   non   avrebbe   potuto   resistere   a lungo in uno stato di conflitto irrisolto. Capì, prima di molti altri, che la vita in un clima costante di violenza, di occupazione, di terrore, di ansia e di mancanza di speranza, esigeva un prezzo che Israele non avrebbe potuto sostenere. Tutto questo è vero anche oggi, ed è ancora più impellente. Da più di un secolo ormai viviamo in uno stato di conflitto. 

Noi, cittadini di questo conflitto, siamo nati nella guerra, siamo stati educati nella guerra e, in un certo senso, siamo stati programmati per la guerra. Forse per questo pensiamo talvolta che questa follia in cui viviamo ormai da cento anni sia l´unica, vera realtà. L´unica vita destinata a noi e che non abbiamo la possibilità, o forse neppure il diritto, di aspirare a una vita diversa: vivremo e moriremo con la spada e combatteremo per l´eternità. (…) 

Questi sono anche, in parte, i motivi per cui, in tempi brevissimi, Israele è precipitato nell´insensibilità, nella crudeltà, nell´indifferenza verso i deboli, verso i poveri, verso chi soffre, verso chi ha fame, verso i vecchi, i malati, gli invalidi, il commercio di donne, lo sfruttamento e le condizioni di schiavitù in cui vivono i lavoratori stranieri e verso il razzismo radicato, istituzionale, nei confronti della minoranza araba. Quando tutto questo accade con totale naturalezza, senza suscitare scandali né proteste, io comincio a pensare che anche se la pace giungerà domani, anche se un giorno torneremo a una situazione di normalità, abbiamo forse già perso l´opportunità di guarire. (…) 

Ogni persona di buon senso in Israele – e aggiungo, anche in Palestina – sa esattamente quale sarà, a grandi linee, la soluzione del conflitto tra i due popoli. Ogni persona di buon senso è anche consapevole in cuor suo della differenza tra sogno e aspirazione e ciò che è possibile ottenere alla fine di un negoziato. Chi non lo sa, arabo o ebreo che sia, non è già più un possibile interlocutore, è prigioniero di un fanatismo ermetico e non è quindi un possibile partner. Consideriamo un attimo il nostro partner. I palestinesi hanno scelto come loro guida Hamas che rifiuta di negoziare con noi e di riconoscerci. Cosa si può fare in una situazione simile? Cos´altro ci rimane da fare? Continuare a soffocarli? A uccidere centinaia di palestinesi a Gaza, per la maggior parte semplici cittadini come noi? 

Si rivolga ai palestinesi, Signor Olmert. Si rivolga a loro al di sopra delle teste di Hamas. Si appelli ai moderati, a chi si oppone, come lei e me, a Hamas e alla sua strada. Si appelli al popolo palestinese. Non si ritragga dinanzi alla sua ferita profonda, riconosca la sua continua sofferenza. Lei non perderà nulla, e neppure Israele, in un futuro negoziato. Solo i cuori si apriranno un poco gli uni agli altri, e questa apertura racchiuderà in sé una forza enorme. In una simile situazione di immobilità e di ostilità la semplice compassione umana possiede la forza di una cataclisma naturale. 

Per una volta tanto guardi i palestinesi non attraverso il mirino di un fucile o da dietro le sbarre chiuse di un check point. Vedrà un popolo martoriato non meno di noi. Un popolo conquistato oppresso e senza speranza. È  ovvio  che  anche  i   palestinesi  sono   colpevoli  del vicolo cieco in cui ci troviamo. È ovvio che anche loro sono ampiamente responsabili del fallimento del processo di pace. Ma li guardi un momento con occhi diversi. Non solo gli estremisti fra loro. Non solo chi ha stretto un patto di interesse con i nostri estremisti. Guardi la maggior parte di questo povero popolo il cui destino è legato al nostro, che lo si voglia o no. Si rivolga ai palestinesi, signor Olmert, non continui a cercare ragioni per non dialogare con loro. Ha rinunciato all´idea di un nuovo ritiro unilaterale, e ha fatto bene. Ma non lasci un vuoto che verrebbe immediatamente colmato dalla violenza e dalla distruzione. Intavoli un dialogo. Avanzi una proposta che i moderati (e fra loro sono più di quanto i media ci mostrino) non possano rifiutare. Lo faccia, in modo che i palestinesi possano decidere se accettarla o se rimanere ostaggi dell´Islam fanatico. Presenti loro il piano più coraggioso e serio che Israele è in grado di proporre. La proposta che agli occhi di ogni israeliano e palestinese sensato contenga il massimo delle concessioni, nostre e loro. Non stia a discutere di bazzecole. Non c´è tempo. Se tentennerà, fra poco avremo nostalgia del dilettantismo del terrorismo palestinese. Ci batteremo il capo urlando: come abbiamo potuto non fare ricorso a tutta la nostra elasticità di pensiero, a tutta la creatività israeliana, per strappare i nostri nemici dalla trappola in cui si sono lasciati cadere? (…)

E in conclusione. È ovvio che non tutto dipende da noi e ci sono forze grandi e potenti che agiscono in questa regione e nel mondo e alcune di loro – come l´Iran e come l´Islam radicale – non hanno buone intenzioni nei nostri confronti. Eppure molto dipende da come agiremo noi, da ciò che saremo. Attualmente non esiste grande disparità tra la sinistra e la destra. La stragrande maggioranza degli israeliani capisce ormai – per quanto alcuni senza troppo entusiasmo – quale sarà a grandi linee la soluzione del conflitto: questa terra verrà divisa, sorgerà uno stato palestinese. Perché, quindi, continuare a sfibrarci in una querelle intestina che dura da quasi quarant´anni?! Perché la dirigenza politica continua a rispecchiare le posizioni dei radicali e non quelle della maggior parte degli elettori? Dopo tutto la nostra situazione sarebbe migliore se raggiungessimo un´intesa nazionale prima che le circostanze – pressioni esterne, una nuova Intifada o una nuova guerra – ci costringano a farlo. Se lo faremo risparmieremo anni di versamenti di sangue e di spreco di vite umane. Anni di terribili errori. 

Mi appello a tutti, ai reduci dalla guerra che sanno che dovranno pagare il prezzo del prossimo scontro armato, ai sostenitori della destra, della sinistra, ai religiosi e ai laici: fermatevi un momento, guardate l´orlo del baratro, pensate a quanto siamo vicini a perdere quello che abbiamo creato. Domandatevi se non sia arrivata l´ora di riscuoterci dalla paralisi, di fare una distinzione tra ciò che è possibile ottenere e ciò che non lo è, di esigere da noi stessi, finalmente, la vita che meritiamo di vivere.

Apri e scarica la rivista in .pdf

Leggi gli altri articoli di questo numero:

Leggi gli altri numeri 

del Vagabondo:

bottom of page