top of page

Novembre 2006

Il Vagabondo

Numero 2 Anno I

pensieri vagabondi su viaggi, letteratura, cinema, musica e tutto ciò che ci passa per la testa

Viaggio del mese

Auschwitz: all'interno del male assoluto

Una bandiera bianca incorniciata di blu, con una grossa stella a sei punte, sventola nell’aria gelida; una persona si inginocchia di fronte a una costruzione di mattoni rossi e accende un piccolo cero colorato; il gruppo dietro assiste immobile, impietrito, in totale silenzio. E’ una scena toccante, commovente, un momento terribile ma necessario; affrontare i fantasmi di un recente passato non è mai facile per nessuno, ma essere ebrei e varcare i confini tetri e sinistri di Auschwitz rasenta l’eroismo. Tuttavia affrontare questo luogo per loro, più ancora che per tutti gli altri popoli qui imprigionati, torturati e sterminati, è un monito fortissimo, un grido disperato, ferito, che si alza al cielo per urlare tutta la sua indignazione e rabbia. Parole di incredulità si mischiano nel vento, ma come può essere stato possibile, ma perché si è giunti a sprigionare tanto odio, tanto risentimento, tanta tremenda stupidità? Ci vuole coraggio per varcare quel terribile cancello sul quale campeggia lugubre la scritta “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi che pare quasi una burla, una cinica beffa in un luogo dove la parola libertà non può avere alcun senso logico. E come potrebbe avercelo quando si è circondati da due ordini di filo spinato elettrificato e ovunque svettano torrette di controllo, pronte a far fuoco al minimo accenno di voglia di libertà di chi si trova all’interno? E ci vuole anche coraggio per addentrarsi in questo antro fatto di malvagità e di dolore, costruito per distruggere, creato per cancellare. 

Auschwitz il Vagabondo 2
Auschwitz

I block sono lì, tutti uguali, uno dopo l’altro in precisa sequenza, semplici, puliti, ordinati; ieri erano reclusori, oggi un museo nato come severo avvertimento, per non dimenticare. Varcarne la soglia è difficile, perché quello che si incontra dentro è penoso, angosciante, ma è giusto sfidarlo per prenderne consapevolezza, per capire, per combattere meglio quando ci si trova di nuovo di fronte a simili aberrazioni della mente. La vita del campo è raccontata in ogni sua fase dall’arrivo fino a quella che diviene l’agghiacciante routine della vita di tutti i giorni. Letti di legno su tre livelli, lunghe lastre bucherellate da usare come latrine e soprattutto cumuli, cumuli e ancora cumuli; oggetti comuni, normali che formano grottesche e spaventose composizioni, a sottolineare il passaggio dalla libertà alla prigionia, dalla vita alla morte, dal tutto al niente. 

Grovigli di stanghette di occhiali, montagne di scarpe, garbugli di lunghi capelli femminili, pettini, pentole, valigie con tanto di nome e cognome effigiato sopra; ricordi di persone che furono e che sono state costrette a non essere più.  E lunghe gallerie di  foto, volti  tristi,   emaciati, consunti, volti che sembrano chiedere perché sono qui, perché indosso vesti a strisce e il mio nome è diventato un numero? Tante domande, nessuna risposta. Ultimo della fila, anticamera dell’inferno, il Block 11, il blocco della morte, sede di celle e sadiche torture, di condanne a morte e loculi claustrofobici, dove già un uomo poteva stare a malapena e ne venivano ammassati quattro. 

Auschwitz

Fuori la neve scende abbondante, trascinata da un vento incessante; le strade sono fangose, così come lo spiazzo adibito all’adunata dove si rischiava di sostare ore senza motivo, solo per godere del freddo penetrante di queste zone, ma non c’è da preoccuparsi, tanto c’è un piccolo gabbiotto non sia mai che chi comanda si possa raffreddare, siamo matti, ci vuole qualcosa per ripararsi. Una rotaia del treno tenuta su da tre pali non è un’opera d’arte moderna, ma solo il più rudimentale e raccapricciante mezzo dove poter impiccare. E alla fine, poco fuori dalle recinzioni, un camino che si erge vicino a una costruzione bassa e minacciosa: qui finisce la corsa, qui non c’è più speranza, qui ci sono solo gas e fiamme ad attendere i corpi di chi sa che solo la morte può significare liberazione. 

Pochi chilometri da Auschwitz, altri orrori si materializzano di fronte a una struttura allungata, con un grosso portone al centro che come una bocca spalancata e famelica inghiotte uomini, donne, bambini senza alcune distinzione, senza alcuna pietà. I binari ci passano attraverso e terminano la loro corsa poche centinaia di metri dopo: destinazione Birkenau, capolinea di esistenze. Qui colpisce l’immensità, lo spazio ricoperto di casupole in legno o mattoni, e dove non ci sono più le costruzioni, distrutte dai nazisti ormai in fuga, rimangono, alti, i camini come steli funerarie, come monumenti alla memoria, a ricordare quello che è stato fatto. 

Auschwitz
Auschwitz

Altri fili spinati, altre torrette, tutto uguale a prima, tutto con la stessa finalità: distruggere, annientare. Alla fine dei binari tante targhe, in tante lingue diverse, ma sempre con il medesimo epitaffio che si ripete all’infinito, senza mai stancarsi e così deve essere. “Grido di disperazione e ammonimento all’umanità, sia per sempre questo luogo, dove i nazisti uccisero circa un milione e mezzo di uomini, donne e bambini, principalmente ebrei da ogni parte d’Europa”. Difficile camminare per questi luoghi, ma necessario; se tutti si rendessero veramente conto di persona di cosa si prova di fronte a tutto questo, forse non si ripeterebbero mai più errori del genere, forse il mondo sarebbe un posto migliore, un posto ospitale per tutti, un mondo differente da quello in cui viviamo. Capire che si è commesso un errore e non ricommetterlo, questo caratterizza l’uomo: l’apprendimento; se così non è, non possiamo definirci uomini.

Apri e scarica la rivista in .pdf

Leggi gli altri articoli di questo numero:

Leggi gli altri numeri 

del Vagabondo:

bottom of page