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Il Vagabondo

Gennaio - Febbraio 2014

Numero 32 Anno IX

pensieri vagabondi su viaggi, letteratura, cinema, musica e tutto ciò che ci passa per la testa

Viaggio del mese

Khmer rossi

Storia di un olocausto poco conosciuto

Il 17 aprile 1975 la guerra civile cambogiana termina, con la vittoriosa entrata dei khmer rossi a Phnom Penh. Erano stati anni duri quelli della guerra civile: da una parte la strenua resistenza dei guerriglieri nelle campagne, dall’altra i bombardamenti a tappeto dei caccia americani che sostenevano con le unghie e con i denti il governo. Un governo fantoccio che si era impossessato del potere con un abile colpo di stato, favorito dalla potenza a stelle e strisce alla ricerca di una mossa importante sull’intricato scacchiere della guerra del Vietnam. Una mossa che, in prospettiva, si rivelò avventata e completamente sbagliata, per una serie di validi motivi. Primo fra tutti quello di avere sottratto il potere al principe Sihanouk, molto amato dal popolo e venerato quasi come un’incarnazione del dio-re. E di conseguenza aver spostato le simpatie della gente verso i nemici dell’invasore americano, quei khmer rossi che da anni cercavano invano consensi alla loro battaglia e si ritrovavano con un imprevisto complice per la loro propaganda. La decisione del governo degli Stati Uniti di abbandonare la Cambogia al suo destino, dopo la firma di un accordo di pace con il vicino indocinese, regalò quindi ai khmer rossi campo libero in una situazione che si era fatta molto favorevole. Troppi nemici aveva il governo centrale, visto come usurpatore del potere e asservito allo straniero, per poter sperare di condurre in porto da solo una guerra vittoriosa. E così, il 17 aprile 1975 la guerra civile termina e i khmer rossi sono salutati come trionfatori da una folla acclamante. Purtroppo però la festa ebbe breve durata. Anche se il mondo  non  poté  constatarlo,   in  quanto   gli  stranieri  vennero  fatti  evacuare  in fretta e 

e furia: diplomatici, giornalisti, fotografi, tutti senza distinzione di sorta, furono caricati su aerei e rispediti a casa. La Cambogia si chiuse in sé stessa e per anni solo strane e terribili voci si susseguirono su quello che stava accadendo dentro i suoi confini. Erano le incredibili testimonianze degli esuli, di chi riusciva a fuggire, superare la frontiera e raggiungere la salvezza. Quello che quegli uomini raccontavano era assolutamente assurdo e tremendo: i khmer rossi avevano instaurato un regime del terrore sanguinario e crudele e stavano perpetuando una strage di innocenti. Per molto tempo le uniche notizie sulla Cambogia arrivarono da questi profughi, da questi fantasmi in fuga dall’inferno. Tutto andò avanti per alcuni anni, finché i khmer rossi fecero un errore imperdonabile: iniziarono ad avere mire espansionistiche, sconfinando più volte nei territori del vicino Vietnam. 

Quando le provocazioni non poterono più essere sopportate, i vietnamiti imbracciarono le armi e in pochi mesi riuscirono ad avere la meglio sul poco preparato esercito khmer. Solo allora, quando la nebbia densa calata sulla Cambogia si diradò, si riuscì a vedere l’immenso campo di morte allestito dai guerriglieri comunisti. E si scoprì allo stesso tempo tutta la triste storia di quei drammatici anni, la storia che Pol Pot, leader indiscusso dei khmer rossi, aveva imposto al suo paese nella sua lucida e folle idea di creare una “Società nuova”. Ogni azione, anche la più turpe, era compiuta in nome di questo ideale, ogni crimine era commesso per un ben preciso e allucinante scopo. E fu così che una volta entrati nelle città, i khmer rossi le svuotarono rapidamente per alimentare l’attività che ritenevano più consona all’uomo e più redditizia per il paese: l’agricoltura. Vennero chiuse le scuole, gli uffici, le fabbriche, i templi, tutti gli ostacoli che si frapponevano all’ideale di purezza sognato. 

 Tutti furono condotti in campagna a vivere dentro enormi fattorie collettive e destinati ai lavori nei campi o allo scavo di un enorme sistema di canalizzazioni. Nel frattempo iniziò anche la caccia all’uomo, contro tutte quelle persone che rappresentavano una minaccia alla creazione dell’uomo nuovo. Insegnanti, ingegneri, artisti e tutti quanti possedessero un titolo di studio furono i primi a finire nel tritacarne allestito dal regime, per eliminare gli intralci al loro ideale di un’umanità restituita al suo stato primitivo e puro. Intere famiglie furono sterminate con metodi brutali e barbari: confessioni estorte con la tortura e rapide esecuzioni sommarie con un colpo in testa, per non sprecare preziose munizioni. Sommati ai tanti che morirono di stenti per il duro lavoro e la scarsa alimentazione, il numero dei morti che andavano a riempire  le squallide  fosse comuni  andò velocemente ad aumentare. E mentre i leader del partito si rallegravano con il mondo, nelle loro rare esibizioni pubbliche, del successo delle politiche comuniste in Cambogia, della produzione agricola ai massimi storici e del nuovo sistema di canalizzazioni che avrebbe portato l’acqua in ogni terra remota, i cambogiani morivano sempre più numerosi. Scappare era difficile e pericoloso, la frontiera continuamente controllata e pattugliata dalle truppe, l’intera nazione trasformata in uno sconfinato carcere a cielo aperto, circondato da spesse e invalicabili sbarre. Questo era il quadro generale quando i khmer rossi governavano incontrastati il paese, senza che nessuno potesse immaginare l’orrore che si stava perpetrando all’umanità intera. L’ossessione andò avanti per tre anni e nove mesi, in un crescendo di paranoie e paure, di persecuzioni ed esecuzioni di fantomatici nemici della rivoluzione, di sedicenti traditori della causa, di loschi infiltrati a corrompere la razza. Si narra addirittura che i khmer rossi sottoponessero gli uomini alla prova della palma: chi riusciva ad arrampicarsi fino in cima era un uomo della terra e poteva vivere, chi invece non ce la faceva era un cittadino camuffato da agricoltore e meritava di morire. Un parossismo criminale che li portò ad uccidere quasi un terzo della popolazione: oltre due milioni di persone su poco meno di sette. E poi, il 7 gennaio 1979, l’intervento vietnamita pose finalmente fine allo sterminio. La resistenza dei khmer rossi, rifugiatisi fra le montagne, durò ancora per vent’anni fino a che nel 1999 anche l’ultimo focolaio di guerriglia fu definitivamente spento. Quello che restò fu una distesa di macerie, un cimitero di innocenti senza nome né degna sepoltura,  un campo di battaglia in cui cambogiani uccisero senza pietà altri cambogiani. Un olocausto di uomini, donne e bambini, sterminati brutalmente e ancora senza giustizia. La Cambogia infatti non ha ancora chiuso i conti con il suo passato. Pol Pot, il capo indiscusso del partito, è morto nel 1998, senza mai essere stato catturato. Gli altri suoi più fedeli collaboratori hanno vissuto da uomini liberi per anni, al termine del conflitto civile, finché un pressante bisogno di giustizia e liberazione dagli incubi del passato non ha mosso l’opinione pubblica di tutto il mondo, a reclamare un’azione giudiziaria. Sono iniziati così diversi procedimenti che vedono implicati i componenti ancora in vita del regime. Il Caso 001, contro il Compagno Duch, reo di essere stato il capo del carcere di Tuol Sleung dove migliaia di persone furono torturate e uccise, è l’unico che sia già terminato con la condanna all’ergastolo dell’imputato. Ben più consistente il Caso 002 che si sta occupando di giudicare le spietate gesta dei principali leader del partito: il Fratello numero Due, Nuon Chea, il Fratello numero Tre, Ieng Sary e l’ex capo di stato Khieu Samphan. Il processo è ancora in corso, come molti altri, anche se si spera in una rapida conclusione che faccia chiarezza una volta per tutte e metta la parola fine alla storia dei khmer rossi. Nell’attesa è doveroso non far calare il silenzio su questa immane tragedia, parlarne, studiarla perché possa essere un monito potente contro tutti i futuri tentativi di sopruso, sopraffazione, violenza. E anche se è avvenuta in un paese tanto remoto e lontano, farla conoscere, perché non esistono popoli di serie b ed è sacrosanto che le coscienze si indignino per quanto successo al popolo cambogiano. E poi, condividere aiuta a distribuire il peso su una superficie più ampia.

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