Il Vagabondo
Gennaio - Febbraio 2014
Numero 32 Anno IX
pensieri vagabondi su viaggi, letteratura, cinema, musica e tutto ciò che ci passa per la testa
Viaggio del mese
Trasporti in salsa cambogiana
Tre esperienze dal sapore molto diverso
E’ da poco passata l’alba quando, ancora un po’ assonnati, scendiamo dal tuk-tuk all’ingresso dell’imbarcadero di Phnom Penh. Il fiume è largo e quieto, e nell’attesa che la barca si riempia di viaggiatori ci sistemiamo sul ponte, per goderci al meglio la vista e il sole durante la navigata che ci aspetta. Alle 7.30 si mollano gli ormeggi ed iniziamo a risalire la corrente, lasciandoci alle spalle, qualche centinaio di metri dietro di noi, il punto in cui quest’affluente si unisce al mitico Mekong. Il Tonlé Sap si snoda tra due sponde fitte di abitazioni, che ben presto – man mano che ci allontaniamo dal centro storico della capitale – si trasformano in palafitte e poco più di baracche, fatte di lamiere o legni, l’una costruita sull’altra, in un equilibrio dall’aria precaria. Una strana periferia per noi che siamo abituati a piani e piani di casermoni in cemento: qui l’“architettura” si sviluppa in orizzontale, con una prima striscia di vere e proprie case galleggianti e, subito dietro, a pochi metri dalla riva, una serie di case rialzate su file di pali, più simili a vecchie impalcature che a solide strutture di sostegno. I panni stesi al sole regalano un po’ di colore alla monotonia dei materiali e qua e là, un po’ dappertutto, spuntano persone, uomini donne e bambini alle prese con la quotidiana sopravvivenza. Sul fiume invece si incrociano le tipiche barchette di legno, lunghe, basse e sottili, spesso con le prue dipinte in toni verdi o azzurri, con sopra piccoli gruppi di uomini intenti a stendere le reti per la pesca. Trascorsa una mezz’ora abbandoniamo la città: le palme fanno capolino fra la ricca natura equatoriale e il verde prende il sopravvento. Il fiume pian piano si stringe e le case punteggiano solo ogni tanto il paesaggio, sempre rialzate su palafitte per sfuggire alle piene stagionali, pericolose e insieme necessarie, perché regalano fertilità ai terreni circostanti. I bambini, e non solo loro, che ci vedono passare alzano un braccio e ci salutano sorridenti, dandoci il loro benvenuto in questo territorio che è casa loro. Ogni tanto fra la boscaglia spunta un tempio, uniche costruzioni in muratura, con grandi tetti rossi spioventi l’uno sull’altro, pareti candide e decorazioni dorate; o magari un Buddha di pietra che medita sereno e imperturbabile sotto una piccola pagoda. Quando il corso d’acqua si allarga non è raro incontrare fila di barchette a remi ormeggiate l’una accanto all’altra sino quasi a metà del fiume, e interi villaggi fatti solo di case galleggianti, altra funzionale soluzione per convivere con l’instabile altezza dell’acqua. Pesca e agricoltura sono le uniche forme di sostentamento, in questo angolo di mondo lussureggiante ma estremamente povero. Dopo alcune ore di navigazione raggiungiamo il grande lago che al nostro fiume dà il nome e che rappresenta la principale riserva di pesci di tutta la nazione. Lo risaliamo costeggiando il lato nord, attraversando immense zone d’acqua bassa, risaie naturali fra file di mangrovie. Ed infine, intorno alle tre del pomeriggio, attracchiamo al molo: finito il miglior viaggio nel viaggio, con gli occhi pieni di liquide immagini e sequenze di nuovi ricordi, ritorniamo sulla terra ferma e puntiamo Angkor.
“Tuk-tuk, sir?”. Comincia sempre così, con questa domanda e un po’ di contrattazione sul prezzo, qualsiasi viaggio in tuk-tuk si voglia fare in Cambogia. Li avevamo già usati in Thailandia, questi moderni risciò in cui la forza umana è sostituita da motorette più o meno potenti e che rimpiazzano i taxi, muovendosi rapidi nel traffico. Oggi diciamo di si, ci serve un tuk-tuk per visitare due punti fra loro lontani nella città: dapprima in centro, fra strade costeggiate da grandi fasci di cavi neri, che si perdono tentacolari fra vicoli e vie, e da lì verso l’estrema periferia e ancora oltre, là dove la città si lascia circondare di risaie. Il traffico è caotico, i semafori letteralmente non esistono e da queste parti il concetto di contro mano non ha molto significato... Basta passare, continuare ad andare avanti senza fermarsi mai, magari rallentare e cercare percorsi alternativi fra camion e motorini, macchine e coraggiosi che attraversano questo marasma. Alcuni lavori in corso e una deviazione causa corteo prolungano l’avventura, regalando tanti scorci di vita lungo la carreggiata. Botteghe con artigiani al lavoro, negozianti di frutta o di piccoli templi per gli spiriti, di gomme e camere d’aria o di materiale edile, baretti, mucchi di terra, carretti di cibo da strada, passanti, biciclette... E ancora tuk-tuk, utili per muoversi in città, come nella giungla: lungo le vie d’accesso all’immenso complesso templare di Angkor, alla scoperta dei sui antichi tesori di pietra, sparsi in un’area di svariati kmq. Svoltare l’angolo e veder apparire fra le fronde una piramide a gradoni, svoltarne un altro e ritrovarsi ad aggirare un tempio dalle torri-prasat coperte di volti sorridenti; percorrere il confine d’acqua dell’edificio sacro più vasto del mondo, o raggiungere ad un’ora di strada fra la campagna un capolavoro d’intagli e un fiume scolpito d’immagini sacre. Che si tratti d’un’intera giornata o di una semplice corsa all’aeroporto o alla tranquilla Otres beach, un viaggio in tuk-tuk è una simpatica avventura che fa sempre piacere e spesso permette di far due chiacchiere con persone interessanti, che con un occhio guardano la strada e con l’altro raccontano la loro Cambogia.
Notte. Un’attesa che si prolunga oltre il previsto. Quando ci vengono a prendere inizia un estenuante giro di un’ora a recuperare gli altri viaggiatori dai rispettivi hotel e si conclude – fra gente in piedi e bagagli ammucchiati un po’ ovunque – di fronte al pullman notturno di mezzanotte, ormai all’una del mattino. E va’ bene, l’importante è averlo raggiunto, ora basta lasciare il bagaglio nel solito spazio sotto e salire in cerca dei nostri “posti letto vip”, come da biglietto che abbiamo fra le mani. Magari. Salire sul pullman e metterne a fuoco l’interno è uno di quei momenti in cui il tempo pare fermarsi, una manciata di istanti si dilatano in una sequenza di lenti fotogrammi, durante i quali gli sguardi corrono su quanto ci circonda e la mente cerca di dare un senso a quanto le si delinea davanti. Altro che posti letto, altro che sedili! ...un’intelaiatura di ferro grigio corre su entrambi i lati dello stretto corridoio, e forma due livelli di – chiamiamoli letti – di metallo dallo schienale in diagonale, uno sopra ed uno sotto, i matrimoniali a destra ed i singoli a sinistra. Sono numerati. Cazzo, i nostri sono sotto: il che significa dormire per terra, allo stesso livello del lurido corridoio coperto da un livida moquette, con una schifosissima coperta dal colore indefinibile, anche perché l’illuminazione è quasi inesistente là sotto. E’ scomodo, è buio, non ci sono finestre (perché solo il livello più alto le ha), è pieno di gente e la sensazione dominante, quando infine partiamo, è quella di essere in una scatoletta, in una trappola per topi che da un momento all’altro si sarebbe trasformata in una accartocciata gabbia mortale di metalli contorti. L’autista corre sulla strada e a tratti quasi si ferma per evitare buche che paiono voragini o superare il carretto di turno. Fa freddo. L’aria condizionata è l’unica cosa che funziona, e pure troppo: la bocchetta non c’è e dal buco grosso come un pugno esce un forte flusso d’aria gelida, impossibile da attenuare o veicolare altrove. A fatica prendiamo e manteniamo il sonno, volgendo il pensiero alla meta che ci aspetta. Ad un certo punto, quando ormai la luce del giorno filtra d’intorno, ci fermiamo. Sarà un’altra sosta? No, più semplicemente il nostro “pullman diretto” diretto non è e si ferma a Phnom Penh, per un’inattesa ora d’attesa fino a quando un altro bus, almeno questo con sedili normali, ci porterà al mare. Intanto la febbre sale e il co-efferalgan in circolo sale con essa: in botta piena non riesco a tener gli occhi aperti, sudo, vedo immagini che confondono sogno e realtà, e decido di scendere dal secondo pullman all’ultima sosta proprio perché non vedo un bagno dalla hall dell’hotel. Stop ad ulteriori commenti. Sapevamo dalle recensioni online che rischiava di essere un viaggio della speranza, ma abbiamo deciso di correre il rischio per guadagnare una giornata di sole e sabbia, e in fin dei conti abbiamo guadagnato anche una nuova esperienza ed una storia da raccontare. Tempo di percorrenza: 14 ore per circa 400 km!