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Il Vagabondo

Gennaio - Febbraio 2014

Numero 32 Anno IX

pensieri vagabondi su viaggi, letteratura, cinema, musica e tutto ciò che ci passa per la testa

Viaggio del mese

Tiziano Terzani

Un giornalista italiano a caccia di notizie sul misterioso regime dei Khmer rossi

Sakeo, Campo Profughi al confine thai-cambogiano, 20 gennaio 1978 – “Una sera vennero e portarono via il capo distretto. Capii che cominciavano ad ammazzare anche i vecchi khmer rossi come me e decisi di scappare.” Alto, la pelle scura, la faccia butterata dal vaiolo, un pigiama nero e i sandali di copertone sotto i piedi grigiastri pieni di cicatrici, Cheng Chea, 25 anni, contadino diventato guerrigliero e poi boia per il misterioso regime che regge la Cambogia dal 1975, sembra appena uscito dalla giungla. Otto mesi fa ha disertato. Arrivato alla frontiera tailandese dopo cinque giorni di marcia nella foresta, consegnò il fucile alle guardie e si arrese. Ci parliamo attraverso un muro di filo spinato in una sezione appartata di questo campo profughi dove vengono tenuti gli ex khmer rossi che si dichiarano tali, e quelli sospetti. Prima li avevano messi tutti assieme, ma due guerriglieri disertori erano stati quasi uccisi a botte dagli altri rifugiati. L’ex guerrigliero,  impacciato, impaurito,  racconta la sua storia.  Nel 1970  i khmer 

rossi lo costrinsero ad andare con loro e per cinque anni combatté nella regione di Siem Reap, attorno ad Angkor. Finita la guerra, fu trasferito nei servizi di sicurezza e messo al comando di dodici uomini: il suo compito era quello di occuparsi degli ex militari, dei funzionari e degli insegnanti del regime sconfitto di Lon Nol. La popolazione doveva essere purificata e lo slogan era: “Per sradicare l’erbaccia, bisogna rifarsi alle radici”. Così, prima vennero eliminati gli ufficiali, poi i sottoufficiali ed infine anche i soldati semplici. “Come venivano ammazzati?” chiedo. Cheng Chea resta immobile. Altri intorno a lui fanno il gesto di colpire con un bastone qualcuno inginocchiato. Le storie si ripetono. Da due anni visito questi campi ed ogni volta mi sento raccontare le stesse, spaventose, quasi incredibili vicende. Il lavoro di Cheng Chea e del suo gruppo era di individuare, fra la gente che veniva portata come sospetta alla prigione di Siem Reap, chi era davvero un contadino e chi invece era stato qualcos’altro al tempo di Lon Nol. I colpevoli venivano mandati all’Angkar Loeu, l’organizzazione superiore, e da lì, caricati sui camion, nella foresta. All’inizio dell’anno scorso, racconta l’ex khmer rosso, cominciò a circolare nella sua zona l’idea che bisognava fare una nuova rivoluzione. I massacri dovevano avere preoccupato alcuni dei quadri importanti della guerriglia e le condizioni del paese e della gente non erano certo quelle che Cheng Chea e gli altri come lui si erano aspettati con la fine della guerra. “Nel mese di gennaio ci fu una riunione a Siem Reap di vari capi della regione, una trentina di persone. Quando il capo distretto tornò, ci spiegò che avremmo dovuto marciare su Phnom Penh e rovesciare   i  dirigenti   di   lì   che  avevano  tradito  la rivoluzione.” Qualcuno fece la spia e un’ondata di epurazioni si abbatté sui khmer rossi. Secondo fonti tailandesi, alcune centinaia di capi guerriglieri delle regioni settentrionali della Cambogia furono eliminati e le unità da loro comandate vennero disperse in varie parti del paese. Chi fossero i capi del fallito colpo di stato, fin dove arrivasse la loro influenza ancora non si sa, ma che qualcuno abbia tentato di rovesciare il regime di Pol Pot e Khieu Samphan è ormai certo. Lo afferma la stessa radio Phnom Penh, accusando ora i vietnamiti di essere stati dietro tutto a il complotto. Le epurazioni fra i vecchi khmer rossi sono ugualmente verosimili, perché è attraverso queste ricorrenti eliminazioni di tutti i loro oppositori che un piccolo gruppo di dirigenti comunisti, legati da comuni esperienze e da stretti rapporti di parentela, ha preso fin dal 1970 il controllo della guerriglia cambogiana e si è mantenuto da allora fermamente al potere. Il Partito comunista cambogiano ha storicamente le sue origini nella resistenza ai francesi dominata dai vietminh, ma nessuno di quella generazione di combattenti che oggi è al potere in Vietnam e in Laos è sopravvissuto in Cambogia. Migliaia di cambogiani andarono ad addestrarsi ad Hanoi nel 1954 e tornarono a combattere nel loro paese nel 1970; ma nessuno di loro è emerso dopo la fine della guerra. Migliaia di persone entrarono nella guerriglia per riportare al potere Sihanouk, rovesciato da Lon Nol e dagli americani; ma nessuno di loro è venuto alla luce in una importante posizione a livello nazionale o provinciale dopo il 1975. Le epurazioni dei khmer proHanoi avvennero nel ’73; quelle degli elementi proSihanouk, immediatamente dopo la presa di Phnom Penh. Così, al potere dalla fine degli anni sessanta ad oggi c’è sempre stato il gruppetto di quelli che studiarono assieme a Parigi e che entrarono nella resistenza per combattere Sihanouk. Essi sono: Pol Pot, segretario del Partito e Primo ministro, la cui moglie è presidente dell’Unione delle donne cambogiane; Ieng Sary, vicepremier, la cui moglie, sorella di quella di Pol Pot, è anche ministro; Son Sen, ministro della Difesa, la cui moglie è ministro della Cultura; Khieu Samphan, presidente della Repubblica e probabilmente più uomo di facciata che di vero potere. È questo il nucleo immutato di dirigenti ch hanno fatto della Cambogia il paese della più radicale rivoluzione che sia probabilmente mai avvenuta, e che i rifugiati indicano come i responsabili delle centinaia di migliaia di morti da ’75 in poi. Qualcuno azzarda la cifra di un milione, forse uno e mezzo. Con esattezza non lo si saprà mai, ma a forza di sentire da decine di rifugiati in campi diversi le solite storie, coi soliti dettagli, si finisce per non dubitare che la sostanza di ciò che questa gente racconta sia la verità.

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